
DI ALCUNE CASE
Walter Guadagnini
“In realtà penso che il ritratto ambientato, del quale si suppone io sia il padre, aveva centinaia d'anni. Guardate tutti i dipinti fatti in Olanda, tutti i grandi pittori fiamminghi – un dipinto in particolare, dove un uomo è nella sua stanza e sulle pareti ci sono tutti i segni del suo commercio di importazione: note attaccate sul muro, un piccolo disegno, ed egli sta contando delle monete d'oro, e poi nel mezzo c'è una grande finestra, e fuori questi vecchi velieri, che portavano le sue merci nel porto dov'era il suo ufficio. Naturalmente è stato composto dall'artista, e questi erano quelli che gli portavano i soldi. E questo è, in un certo senso, un ritratto ambientato. Volevo mostrare lo spazio, perché noi viviamo nello spazio”. E' una definizione celebre di Arnold Newman, relativa a un genere, la ritrattistica, che lo ha visto tra i protagonisti assoluti intorno alla metà del XX secolo. Ciò che importa in questa sede, però, è soprattutto l'ultima frase, quella in cui il fotografo evidenzia la centralità del rapporto tra la figura e lo spazio che lo circonda. Stante la descrizione del dipinto di Vermeer, lo spazio in questione è evidentemente quello privato, lo spazio di una stanza dal quale si intravede, attraverso una finestra, il mondo esterno. Ritratto ambientato, certo, ma anche “interno con figura”, per rimanere nell'ambito dei generi codificati dalla tradizione pittorica. Interno che, sovente, si traduce in casa, soprattutto nella pittura della vita moderna a partire dalla metà del XIX secolo. Luoghi che si svuotano sempre più di frequente dei loro abitanti, la cui identità si svela non più attraverso la presenza del corpo, ma attraverso quella degli oggetti che ne definiscono lo spazio cruciale dell'intimità. Quanto tali modalità incrocino la storia della fotografia, si può dire semplicemente attraverso la figura di Atget, grande maestro di spazi esterni e interni, in ogni caso quasi sempre privi di figure umane. Un'assenza che non incide per nulla sulla capacità delle sue immagini di rendere appieno modi di vita della propria epoca, di documentare attraverso i luoghi la natura dei loro abitanti.
Come ha scritto Mario Praz, sintetizzando in una formula il pensiero di secoli, “Questo e non altro è, nella sua ragione più profonda, la casa : una proiezione dell'io”; ed è probabilmente in tale chiave che si possono leggere molte delle immagini riunite in questa mostra. Immagini nate negli ultimissimi anni, ad opera di autori appartenenti alla generazione più nuova della fotografia italiana, che si muove consciamente tra rielaborazioni di una tradizione documentaristica forte e invenzioni di carattere più metafisico (e anche in questo caso, comunque, è evidente che la lezione di uno dei più acuti lettori di interni del nostro tempo, Luigi Ghirri, perdura pur con il mutare dei tempi e delle sensibilità). Oltre a ciò, forse prima, la casa è in ogni caso una costruzione, fatta di materiali, con una determinata forma; detto altrimenti, le case sono gli oggetti che costituiscono le comunità, dal piccolo villaggio alla metropoli. La casa è dunque anche architettura, è forma e colore che insieme ad altre crea uno spazio pubblico. Interno ed esterno si toccano, ciò che è diviso dai muri è unito dalle finestre, non necessariamente una casa è “una stanza tutta per sé”, per quanto si possa considerare quel sé al plurale di un nucleo familiare più o meno esteso.
In questa chiave, le immagini di Candeloro e De Sandre proprio di questo dicono, di case come architetture, come parti di un corpo molto più grande del singolo edificio, e come tali inducono evidentemente a una riflessione sulle modalità del vivere quotidiano nella civiltà contemporanea (riflessioni inquietanti invero, e che forse giustificano ulteriormente quella volontà di riappropriazione dello spazio urbano da parte dei suoi abitanti così presente nel dibattito urbanistico e architettonico odierno). Le case fotografate da Candeloro e De Sandre non raccontano di come i loro abitanti si presentino al mondo – è questa in verità una delle caratteristiche essenziali delle case individuali e degli interni -, ma di come la politica e l'economia presentino il mondo ai suoi abitanti, nel bene e nel male. La proiezione dell'io e la presentazione della propria individualità agli altri è invece presente nelle immagini di Eva Frapiccini e di Silvia Camporesi, pur caratterizzate da modalità diversissime sia nello stile che nei soggetti. Situazioni sociali complesse quelle fotografate con stile documentario dalla prima, memorie di una esistenza legata a un tempo diverso (che presupponeva diversi tempi e diversi spazi) quelle della seconda : in ambedue i casi, però, risulta del tutto evidente come la casa sia davvero il centro di un'esperienza biografica caratterizzata dalla presa di possesso del luogo, dall'assoluta sovrapposizione tra gli abitanti – pur invisibili negli scatti – e lo spazio.
Ha scritto con grande finezza Jean François Lyotard che “Là où je peut etre somnanbule sans erreur, là est ma maison”: può essere questo l'approccio alle messe in scena di Francesca Catastini, nelle quali memoria e sogno vanno di pari passo, dove l'una non è distinguibile dall'altra, dove i luoghi si caricano di presenze tanto incongrue quanto paradossalmente familiari (la casa come il luogo dove si sono ascoltate le prime favole, quando anche gli animali parlavano). Ed è infine, in questo sintetico percorso tra le tante apparizioni del concetto stesso di casa, che si può giungere alla scomparsa visiva della casa – come accade nelle fotografie di Alessandro Sambini – senza per questo rinunciare alla chiara sensazione di una domesticità inequivocabile. E' una sorta di ritratto ambientato alla rovescia quello di Sambini, che presenta il luogo attraverso la sua assenza, sottintendendolo; dove le dinamiche individuali hanno in ogni caso la prevalenza su quelle sociali. O per dirla con le parole di un recentissimo saggio di Benoit Goetz, “le case sono fatte di materiali e di pensieri, di architetture e di filosofie, ma anche di comportamenti e di gesti”.
Padova 2011
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